I demoni di F. Dostevskij 

di Daniela Mazzolini e Sabrina Ramacci 

 

F. Dostoevskij

«Questo documento, secondo me, è opera di un uomo in stato morboso dettata dal demone che si era impadronito di lui. Pare il dimenarsi di un malato che soffra di un dolore acuto e si agiti nel letto […] è nello stesso tempo qualcosa di mostruoso e di disperato, sebbene scritto, evidentemente con un altro scopo». Così scriveva Fëdor Michajlovič Dostoevskij ne “I Demoni” a proposito della confessione di Stavrogin, operando una sorta di analisi psicologica della calligrafia del suo personaggio.
La grafia di ognuno di noi ha un suo carattere personale e un “passo” caratteristico: dopo i primi anni di scuola si evolve, si personalizza, iniziando a parlare di noi più di quanto vorremmo, e cambia nella stessa persona a seconda dell’emozione che la anima in quel momento. Per scrivere i suoi libri Dostoevskij disegnava. Preferendo soprattutto il ritratto per rendere come vivi i personaggi, lo schizzo architettonico per creare l’ambiente in cui si sarebbe svolta la scena e infine quasi giocando con la calligrafia, chissà forse per lasciare traccia di se stesso, per visualizzare la sua anima sul foglio.

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Per Dostoevskij, “incarnare l’idea” voleva dire prima di tutto visualizzare ciò che in seguito sarebbe stata narrazione e, nel suo caso, altissima letteratura.
Analisi Grafologica 
Dostoevskij ci ha lasciato numerosi quaderni con appunti che fanno riferimento alle sue opere più importanti, come i “Demoni”, “L’idiota”, “Delitto e castigo”, “I fratelli Karamazof” e “Il Giocatore”. La sua abilità nel tradurre i pensieri e i sogni in realtà attraverso disegni architettonici, schizzi e ritratti ci da l’opportunità di andare ad analizzare secondo un ottica grafologica ciò che si nascondeva dietro la sua abilità di trascinare il lettore non solo nella narrazione ma soprattutto in quelle che sono le zone d’ombra della sua mente, della coscienza e della personalità.
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Come si evince dalle immagini la sua realtà è rappresentata grafologicamente dalla pagina scritta, soprattutto dal rapporto tra i bianchi e i neri, cioè tra lo spazio occupato dall’inchiostro e quello lasciato libero sul foglio. Queste pagine rappresentano lo spazio vitale dello scrittore e sin da subito ci danno un’idea di come egli viva e occupi lo spazio intorno a sé nella sua totalità. In maniera persino morbosa e ossessiva. Alcuni biografi sostengono che tutto ciò che circondava l’autore era eccessivo come i personaggi rappresentati nelle sue opere e la modalità della conduzione del gesto lo conferma.
Dobbiamo inoltre prendere in considerazione il modello scolastico utilizzato in quel contesto storico, siamo in Russia nell’800, che era un modello improntato alla calligraficità, ovvero i singoli engrammi erano considerati a sé stanti, quasi come singole entità pittoriche, per questo ancora di più ci stupisce la continuità grafica, cioè l’attaccamento tra le lettere e nelle parole che, seppur mantenendo un impostazione consona al contesto storico, sono vergate con slancio e impulsività quasi a voler trascinare il lettore verso l’idea, il fatto, la scena successiva.
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Nascono cosi’ paraffe, sottolineature e inchiostrazioni che sembrano voler attraversare il foglio superando quello che è il confine tra la fantasia e la realtà. Si notano quindi gesti aerei e successive marcature, disegni che si sovrappongono al testo, ma che non lo ricoprono, anzi ne sembrano uscire. La conduzione del gesto in alcuni momenti sembra imprecisa e ingovernabile, in altri è definita con paziente studiosità. Cosa si nasconde quindi dietro questa grafia? Indubbiamente un temperamento vitale e vibratile, con evidenti capacità volitive di fermezza e impulsività. La stessa impulsività che nei momenti di maggior tensione dà luogo anche a una estrema impressionabilità che lo porta a destabilizzarli, cioè a perdere il controllo e a confondere, con ogni probabilità, la realtà dalla fantasia.
La firma dello scrittore, qui in esame, ci mostra una personalità che vuole essere presente, che vuole essere protagonista della scena, condurre il gioco per proiettarsi nel futuro, per rischiare.
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Al contempo negli allunghi inferiori c’è stentatezza, dovuta in parte al mezzo scrittorio ma, verosimilmente, si può pensare che la parte inferiore, che simboleggia il mondo degli istinti, le radici quindi, la parte legata agli iniziali stati evoluti della persona, non sia così ben radicata come dovrebbe. La continuità grafica e la fluidità del gesto, che supera in qualche modo lo schematismo del modello scolastico, ci rivelano il superamento degli schemi riferibili al modello scolastico appreso ed evidenziano l’intensità con la quale lo scrittore affronta la realtà.
La seconda parte della firma mostra una dimensione maggiore rispetto alla prima parte, il gesto della lettera iniziale si amplifica e si modula subito dopo per formare gli altri engrammi che, con movimenti curvilinei e fluidi, sembrano come prepararsi allo slancio finale. E’ proprio la paraffa vergata in finale di parola che, con un movimento regressivo, va a sottolineare il cognome, lo sostiene e lo mette in risalto ma, invece di continuare verso un movimento balistico di continuità, si ripiega quasi a significare che lo scrivente voglia nascondersi in se stesso, come se non avesse più la forza per continuare nella sua traiettoria.
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Quando si parla di Dostoevskij non si può non considerare il fatto che egli fosse un giocatore compulsivo. Molti psicanalisti, a cominciare da Sigmund Freud, hanno studiato e analizzato l’uomo: il suo vissuto i suoi traumi infantili, la perdita della madre, l’omicidio del padre.
Il suo tormento interiore, i momenti di esaltazione poi seguiti da quelli di più cupa disperazione, sono stati ricondotti fino a poco tempo fa all’epilessia, alla schizofrenia, eppure la realtà, alla luce degli studi e dei progressi della medicina, sembra condurre verso un’unica direzione: egli era un giocatore compulsivo. Molte lettere scritte ai suoi familiari, in particolare alla sorella, parlano del fuoco che aveva dentro, della disperazione che provava dopo aver passato lunghe notti a giocare e a perdere, del pentimento e dell’incapacità di smettere.
Il fatto di vivere così intensamente traspare dalla sua calligrafia che è lo specchio del suo genio. Dostoevskij riempiva lo spazio della realtà, del suo vissuto, come la pagina manoscritta: nella sua totalità. La semplice riga scritta lascia il posto ad un ritratto che si intreccia con un disegno, ad una sottolineatura, ad una figura architettonica, per poi continuare riempiendo ogni piccolo spazio. Da queste pagine nasce la sua immensa opera.